di Andrea Monti – PC Professionale n. 142
Una delle prime sentenze che fa chiarezza su quando ci si può appellare al reato di falsificazione di comunicazioni informatiche e quando no.
Lo scorso 25 novembre 2002 il tribunale penale di Avezzano ha deciso uno dei primi casi in Italia, se non il primo in assoluto, in cui veniva contestato il reato di falsificazione di comunicazioni informatiche punito dall’art. 617 sexies del codice penale in relazione ad una diffamazione online. A quanto è dato di sapere, questo processo è anche il primo nel quale un giudice ha messo in dubbio il valore della modalità di acquisizione dei log utilizzata dalla procura della Repubblica, disponendo una perizia dibattimentale per verificare se le procedure seguite fossero corrette e rispettose del diritto di difesa. Il caso in discussione riguardava la versione telematica di uno “scherzo” in voga sui giornali di piccoli annunci: far pubblicare un’inserzione a nome di qualcun altro, con tanto di indirizzo e numero di telefono, nella quale si chiede di essere contattati per erogare “prestazioni particolari”. Solo che questa volta, invece che su un quotidiano, il messaggio a nome di una ragazza marsicana sarebbe apparso in rete su un’area di messaggistica “personale” messa a disposizione da un sito (non si tratta di newsgroup o mailing list, quindi).
A seguito della querela presentata dalla persona offesa, il pubblico ministero ha ritenuto di configurare, oltre alla diffamazione aggravata dal mezzo di pubblicità (internet), anche il reato di falsificazione di comunicazioni informatiche, che si commetterebbe con l’inserimento di un messaggio effettuato celando la propria identità. Accogliendo la tesi della difesa, però, il giudice ha ritenuto l’insussistenza del reato, visto che l’articolo in questione è stato concepito dal legislatore per punire il comportamento di chi “falsifica” le comunicazioni fra due macchine tramite, ad esempio, uno spoofing. E non chi invia messaggi “sotto mentite spoglie” che è comunque soggetto ad altri tipi di sanzione. Specie considerando che l’articolo in questione è “posizionato” in una zona del codice penale che si occupa di tutelare l’inviolabilità dei segreti e non la reputazione delle persone.
Un argomento, questo, che potrà sembrare astruso ma che costituisce un importante criterio per la corretta applicazione delle norme. In sintesi, il ragionamento funziona così: ogni reato protegge un certo “bene giuridico” e solo quello. Quindi non è possibile usare un articolo che tutela l’inviolabilità dei segreti (come appunto il 617 sexies del codice penale) per punire chi inserisce un messaggio anonimamente o fornendo false generalità. Viceversa, anche se le fonti di prova portate dal pubblico ministero e le prove acquisite in dibattimento erano tutt’altro che rigorose (si parla di log inviati per posta, senza nessuna verifica sulla loro integrità e attendibilità, di perizie effettuate da consulenti del tribunale privi di formazione specifica in materia di computer forensic eccetera) l’imputato è stato condannato per il reato di diffamazione.
In proposito è importante notare che in questa vicenda non è stato mai coinvolto chi ha consentito tecnicamente la pubblicazione del messaggio provvisoriamente dichiarato diffamatorio. Cioè il provider o il webmaster o il titolare del dominio. Se si fosse trattato di una pubblicazione effettuata su una testata giornalistica (on-line o cartacea non fa differenza) ci sarebbe stata una responsabilità pressoché automatica del direttore responsabile. Che, come è noto, risponde anche penalmente per gli illeciti commessi tramite la pubblicazione di notizie per non avere effettuato un controllo preventivo. Ma trattandosi di un semplice web, correttamente, le indagini non hanno riguardato in alcun modo l’assegnatario del dominio o il gestore del sito che non sono stati nemmeno minimamente coinvolti nel processo. Anche se il giudice non lo ha affermato esplicitamente, quindi, la sentenza emanata si iscrive nell’elenco delle decisioni “illuminate” che non equiparano sistematicamente e indiscriminatamente un web a una testata giornalistica. Tema ancora in discussione e sul quale, probabilmente, si deve ancora scrivere l’ultima parola.
Infine, e al di là dell’innocenza o meno della persona tratta a giudizio (questione di merito che verrà sicuramente discussa in appello) rimangono numerosi i dubbi che hanno riguardato le modalità di acquisizione delle prove emerse nel processo, loro valutazione da parte del giudice e la qualificazione professionale che dovrebbe essere richiesta a chi intende operare come consulente di un tribunale nei casi di investigazioni che coinvolgono l’internet o, più in generale, i computer. Speriamo che le cose cambino in fretta. Una delle prime sentenze che fa chiarezza su quando ci si può appellare al reato di falsificazione di comunicazioni informatiche e quando no.
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